Le paure dell’uomo sono potenzialmente infinite e non si limitano solo ai pericoli insiti nella realtà che ci circonda ma comprendono anche tutti quelli che possiamo immaginare.
Tuttavia, parafrasando George Orwell, potremmo dire che “alcune paure fanno più paura di altre”, poiché riguardano caratteristiche imprescindibili della natura umana, alle quali è impossibile sottrarsi. Tra queste troviamo la paura di ammalarsi, soffrire e morire, legate alla vulnerabilità del nostro corpo, e la paura di fallire, esperienza connaturata al nostro agire.
Si tratta di paure attuali, nel senso fanno parte del sentire dell’uomo contemporaneo. I presupposti su cui poggiano, però, sono diversi. La paura di ammalarsi e di soffrire fino a morire è atavica e ha a che fare con un disagio ancestrale di cui non siamo mai riusciti a liberarci, legato a ciò che è ignoto, imprevedibile e ineluttabile. La paura di fallire è invece un prodotto dei tempi moderni, che deriva dall’evoluzione di una società che persegue il successo ad ogni costo.
La paura è un emozione. Le emozioni costituiscono potenti meccanismi di interazione tra l’individuo e l’ambiente: guidano la motivazione, la selezione di comportamenti appropriati ad una specifica situazione, la valutazione cognitiva degli stimoli e l’interazione sociale.
In particolare, alcune emozioni sono state definite “fondamentali”, in quanto basate su meccanismi neurofisiologici comuni a tutti i mammiferi e indispensabili per poter gestire efficacemente la realtà.Tra queste, la paura è l’emozione più potente e frequente, poiché strettamente connessa alla sopravvivenza.
La paura ha una funzione sostanziale, sia nel corso dello sviluppo dell’individuo che nell’evoluzione della specie, in quanto permette di riconoscere eventuali pericoli e di agire per la propria salvaguardia. La paura si accompagna infatti a una serie di risposte psicofisiologiche che mettono l’organismo in uno stato di allerta e lo predispongono ad una reazione di attacco o di fuga di fronte allo stimolo minaccioso.
È così che percepiamo ciò che viene comunemente identificato come “ansia”, caratterizzata da palpitazioni, tachicardia, tensione muscolare, aumento della pressione sanguigna, vasocostrizione, ipersudorazione, nonché da uno stato psicologico di forte apprensione, preoccupazione, nervosismo e insicurezza.
Tali reazioni risultano particolarmente utili e funzionali per fronteggiare eventi che rappresentano una minaccia reale e imminente per la nostra incolumità, quali le aggressioni da parte di predatori, che hanno rappresentato un pericolo concreto per buona parte della storia evolutiva dell’uomo.
Al giorno d’oggi, è molto raro imbattersi in quei pericoli dell’ambiente naturale in virtù dei quali la paura è stata selezionata dall’evoluzione come strumento adattativo. I progressi scientifici e tecnologici hanno infatti permesso all’uomo contemporaneo, per lo meno nei Paesi più sviluppati, di non doversi più preoccupare di sfuggire ai predatori, di correre per evitare una tempesta o di dover lottare per procurarsi il cibo.
L’incessante avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche ci ha permesso di controllare e gestire un numero sempre maggiore di aspetti della realtà, costruendo una vera e propria illusione di invulnerabilità.
Sono allora quegli eventi che ci riportano alla dimensione dell’imponderabile e dell’inatteso, tipica dei pericoli primordiali, che fanno sì che l’illusione si infranga e la paura riemerga.
In altre parole, sono le circostanze imprevedibili e incerte, con le quali abbiamo ormai perso consuetudine, a farci sentire più vulnerabili e dunque a spaventarci di più.
Paradossalmente, l’unica certezza di cui disponiamo rappresenta anche l’evento più incerto della nostra vita: che cosa c’è infatti di più indeterminato della morte, che fin dagli albori della civiltà spaventa il genere umano?
Anche nel mondo attuale, la morte diventa emblema di quegli eventi incerti e ineluttabili che fanno emergere i limiti della scienza e l’impotenza dell’individuo. La società ne teme il solo pensiero e perciò la nega e non ne parla, rendendola così ancora più sconosciuta e angosciante.
Lo stesso si può dire per quelle malattie che inevitabilmente evocano scenari di morte. Patologie per cui, nonostante i progressi della medicina, non sono ancora disponibili terapie sicuramente efficaci. Il cancro, in particolare, continua a rappresentare la più temibile tra le malattie, “il brutto male” che suscita paura solo a nominarlo, per la sofferenza delle cure e l’incertezza dei risultati.
La paura della morte, o di soffrire fino a morire, è contemporaneamente atavica e attuale, accompagna da sempre l’uomo e tuttora non lo abbandona.
Ma non è solo la vulnerabilità del corpo a spaventare l’uomo contemporaneo. Al timore primordiale della morte e della malattia si aggiunge una paura tipicamente attuale, prodotta dalla società odierna: la paura di fallire.
Viviamo infatti in una società in cui “per esserci bisogna apparire” e mostrare di saper soddisfare standard sempre più elevati di successo e di perfezione. La prospettiva di un fallimento si traduce quindi in una condizione debilitante, un pericolo da evitare ad ogni costo.
Non era così nell’antichità: per i Greci ad esempio, la forza, la virtù, l’intelligenza si misuravano nel tentativo di superare se stessi, indipendentemente dal risultato. Il valore non era dato dalle vittorie o dalle sconfitte, ma dall’aver accettato la sfida di andare oltre i propri limiti, dall’averci provato.
Andrea Marcolongo (2018), scrittrice e grecista, ricorda l’etimolgia del verbo “fallire”: dal latino “fallere” e dal greco σφάλλω (sphàllō), “cadere”, “inciampare”. Fallire si riferiva quindi in origine all’azione, non alla persona che l’aveva compiuta. Siamo al mondo per cadere e per rialzarci, evidenzia l’autrice, che ricorda come la fallibilità sia la prima dote dell’essere umano, che lo differenzia dalle divinità infallibili.
Oggi, invece, fallire è indice di inadeguatezza, qualcosa di cui vergognarsi e per cui essere biasimati e non di rado è all’origine di sofferenze, difficoltà e problemi portati all’attenzione dello psicoterapeuta.
Vulnerabilità e fallibilità: attributi imprescindibili della natura umana, che diventano oggetto di paure ataviche e attuali.
Non è necessario confrontarsi direttamente con la malattia, la morte o il fallimento per averne paura, ma può essere sufficiente prendere consapevolezza della loro esistenza, o immaginare che possano accadere.
Ne abbiamo un esempio nell’ipocondria, dove sono proprio le malattie immaginate a produrre una sofferenza psicologica concreta: l’ipocondriaco si perde nel timore di ammalarsi e di soffrire, in una ricerca estenuante di quei segni e sintomi che, se non venissero tempestivamente individuati e analizzati, potrebbero determinare il rischio di morire.
Allo stesso modo, basta spesso prefigurarsi l’eventualità di un fallimento per incorrere nell’ansia da prestazione.
Di fronte a ciò che non possiamo conoscere e prevedere con certezza, proprio la ragione, mediante la quale l’umanità ha sconfitto molti dei pericoli che a lungo la hanno afflitta, diventa oggi il principale veicolo di amplificazione della paura. Le capacità di rappresentazione e di immaginazione della mente umana sono infatti considerevoli e ci rendono capaci di prefigurarci e costruire insidie anche in assenza di rischi oggettivi o imminenti.
L’applicazione dell’approccio breve strategico, sia nella terapia che nelle circostanze più difficili che la vita ci propone, può costituire un valido strumento per superare le difficoltà, i problemi e le patologie che si strutturano sulla base delle paure descritte in questo articolo.
L’intervento breve strategico evita di analizzare o discutere le emozioni mediante la razionalità, bensì sceglie di ricondurle a una dimensione funzionale attraverso tecniche di comunicazione e prescrizioni di comportamento che agiscono sul piano del sentire.
Le emozioni si modificano così spontaneamente e senza forzature e dalla percezione di questo cambiamento nascono la coscienza e la consapevolezza di nuove modalità di gestione della realtà.
È così che la paura di soffrire, di morire e di fallire, come tutte le paure che riusciamo ad affrontare, si trasformano in coraggio: il coraggio di accettare la propria vulnerabilità senza esserne annientati, il coraggio di vivere tutta la vita che è concessa, il coraggio di sbagliare e di imparare dai propri errori.